"Crash" e la multimedialità

Nel 1970 Ballard allestisce una mostra di auto precedentemente distrutte in incidenti al New Arts Laboratory di Londra.
L'anno seguente esce un film basato su Atrocity exhibition, nel quale Ballard compare per una ventina di minuti circa in veste di attore, una produzione che affronta problemi di censura per via dell'esplicitazione dei temi trattati e in cui si fa ricorso anche a veri filmati di chirurgia estetica e di scontri d'auto.
Il film cercava di mettere insieme la trama di quell'accozzaglia di testi sperimentali, veste in cui si presentava La mostra delle atrocità, seguendo la schizofrenia del protagonista con l'aiuto delle tecniche di montaggio e di una fotografia dai toni freddi che doveva rappresentare la natura instabile e disgregata di una mente geniale ma vittima delle proprie stesse nevrosi e follie.

Di qui la natura multimediale del romanzo Crash, che non è soltanto la convergenza di interessi multiformi ed extra–letterari, ma anche un testo che rimanda a supporti differenti — il video, la fotografia — all'arte e alla quotidianità resa tale — i rottami di auto elevati allo status di scultura — oltre, ovviamente, ad altri testi, non solo di fiction.
Siamo dunque di fronte a un libro che non solo incorpora elementi dall'esterno, ma punta direttamente fuori dalla dimensione romanzesca, nodo interconnesso di una piú ampia rete di concetti e di eventi.
Già il titolo di per sé non deve essere stata una scelta casuale. Ballard non intitola il suo romanzo "accident", ad esempio, oppure "collision" o con un altro termine piú vago, ma sceglie una parola onomatopeica, qualcosa che non è già piú solo testo, ma anche un suono, un rumore, una sequenza di caratteri che evoca la realtà che esiste al di fuori della pagina scritta.

Se poi ci addentriamo nei contenuti abbiamo una narrazione in cui predomina l'elemento della vista, lo sguardo fotografico o cinematografico, la vita non piú intesa come arte, come vorrebbe la tradizione decadente, ma come performance, come spettacolo.
Di qui l'insistere sulla dimensione visiva dell'esperienza, sia essa vissuta o solamente osservata.